Mi piacerebbe poter dire di aver scritto di mio pugno i paragrafi che seguiranno. Non è così, però, ciò che credo essere giusto riguardo all’utilizzo di un blog, è che nonostante il blog sia pensato principalmente per essere una piattaforma dove ognuno esprime i propri pensieri o i propri file multimediali, il blog possa essere anche un luogo di lode, dove è possibile pubblicare pensieri e passaggi di altri autori. Ho già utilizzato il mio blog a questo fine, e intendo rifarlo con questo articolo.
Ormai diversi anni fa ho letto il primo libro di Sam Harris, filosofo e neuroscienziato statunitense, una delle punte di diamante del movimento noto come New Atheism, a cui, inutile dirlo, mi sento molto affine. Sam Harris è molto poco conosciuto alle nostre latitudini, soprattutto tra chi non si interessa di religione e ateismo. Tuttavia, è molto più conosciuto negli Stati Uniti dove i suoi libri vengono regolarmente criticati ed elogiati, e dove lui stesso viene invitato in dibattiti pubblici e televisivi. Il primo libro è La Fine della Fede, pubblicato nel 2004. Una delle cose che ricordo, nella ricerca di questo libro, è la fatica che ho fatto per trovarlo. Sono andato in diverse librerie per acquistarlo, ma ovunque cercassi sembrava introvabile, era esaurito, ma soprattutto era ormai fuori catalogo. Ricordo che una volta, parlando in una libreria, mi è stato detto “Non trovo il libro per l’ordinazione da nessuna parte; poi sai, i libri di questo tipo, con titoli di questo tipo, cercano di censurarli”. Il perché cercassero di censurarlo, ammesso che la commessa in libreria avesse ragione – cosa possibile – mi è stato subito chiaro quando l’ho letto. È un attacco a molti paradigmi esistenti e dominanti, un attacco ai valori della società religiosa, ovunque essa si trovi. È un attacco, tuttavia, molto ben strutturato, argomentato, ma sopratutto pulito. Non è meschino Harris. Il suo è un affronto frontale e determinato, un affronto a un certo tipo di irrazionalità che se si vive seguendo una logica razionalista non si può non condividere. Non posso citare tutti i capitoli e sottocapitoli del libro di Harris. Vi invito a leggerlo. Ma qui ne riporto solo una parte. Questa è la posizione di Harris sulle droghe, un tema che lui conosce abbastanza bene in quanto di droghe ha fatto uso; o meglio, sulla guerra alle droghe, e in particolare nel contesto statunitense. Se c’è una persona che può esprimersi sul tema in maniera competente, Harris è uno dei migliori in circolazione. Credo tuttavia che molte cose che dice sono in realtà estrapolabili anche per quel che concerne la nostra società europea, ed in generale tutte le società umane. Per questo lo reputo meritevole di diffusione. Non condivido necessariamente tutto quello che dice l’autore, ma la stragrande maggioranza delle sue posizioni sul tema. Ancora una cosa, prima di citarvi il lungo ed illuminante esposto di Harris. Se sei convinto fumatore di marijuana e credi che liberalizzare le droghe sia una soluzione più che giustificata e giustificabile, questo articolo ti può interessare. Ma anche se non fai uso di droghe (e questo è il mio caso, anche perché io sono molto vicino ideologicamente parlando allo straight edge), può interessarti l’articolo e puoi ritenere sbagliata la presa di posizione dell’opinione pubblica su questo argomento. È infatti troppo facile farsi portavoce di una battaglia solo quando ci riguarda da vicino. Un comportamento rimane giusto, o ingiusto, che ci riguardi direttamente o meno. E in ogni caso, in quanto individui facenti parte della comunità terrestre, la verità è che tutti i problemi ci riguardano direttamente o indirettamente. Volerlo negare è volere costruire a forza, intorno a se, una campana di vetro. Da qui in poi parla – meglio, scrive – Samuel Benjamin Harris.
[
Ciò che più sorprende del concetto di “reato senza vittime” è che, persino quando il comportamento in questione non causa assolutamente vittime, la sua criminosità continua a essere affermata da coloro che non vedono l’ora di punirlo. È in questi casi che si manifesta pienamente il vero spirito che anima segretamente molte delle nostre leggi. L’idea che possa esistere un reato senza vittime non è altro che una riproposizione, a livello giuridico, del concetto cristiano di peccato. Non è un caso che le persone di fede spesso desiderino limitare la libertà personale di altri. Questo istinto ha poco a che vedere con la storia della religione, ma va ricondotto, invece, alla logica sottesa ai principi della fede, in quanto l’idea stessa di privacy è incompatibile con l’esistenza di Dio. Se Dio vede e sa ogni cosa, ed è così provinciale da scandalizzarsi per certi comportamenti sessuali o condizioni mentali, allora ciò che le persone fanno a casa propria, anche se può non avere alcuna conseguenza per il loro comportamento in pubblico, sarà comunque un argomento di pubblico interesse per i credenti. (…) Non occorre essere dei demografi per intuire che il voler incriminare adulti consenzienti per comportamenti sessuali non finalizzati alla procreazione va messo in stretta correlazione con la fede religiosa. L’influsso della fede sulle nostre leggi penali viene pagato a caro prezzo. Considerate il caso dei farmaci. Si dà il caso che esistano numerose sostanze – molte delle quali presenti in natura – in grado di provocare, una volta assunte, stati transitori di piacere smisurato. Per quanto occasionalmente esse possano procurare esperienze estremamente degradanti, senza dubbio il loro effetto principale è proprio tale sensazione di piacere. Se così non fosse, non si spiegherebbe l’attrazione che esse esercitano da millenni sugli esseri umani.
Le leggi sulla droga, o in generale tutte le leggi che regolano i vizi, sembrano rispondere ad un unico principio: è stato dichiarato illegale tutto ciò che, in quanto fonte di piacere, potrebbe offuscare la preghiera o la sessualità finalizzata unicamente alla procreazione. In particolare, è stata proibita qualsiasi droga (LSD, mescalina, psilocibina, DMT, MDMA, marijuana ecc.) alla quale i consumatori hanno attribuito un qualche significato religioso. In questo dibattito, le preoccupazioni sulla salute dei cittadini e sulla loro produttività rappresentano solo delle coperture, come attesta il fatto che siano legali gli alcolici e le sigarette. [1]
L’alcol (che continua ad essere considerato alla stregua di un bene di prima necessità) è, in assoluto, la sostanza più pericolosa da ogni punto di vista. Non è stato approvato il suo uso in medicina ed è facile assumerne una dose letale. È indubbia la sua responsabilità sugli incidenti d’auto. Il modo in cui l’alcol libera la gente dalle proprie inibizioni contribuisce ad alimentare la violenza, le gravidanze impreviste e la diffusione delle malattie sessuali. Sappiamo perfettamente che anche l’alcol dà dipendenza. Se consumato in gran quantità per molti anni, può portare a problemi neurologici devastanti, alla cirrosi epatica e alla morte. Soltanto negli USA ogni anno oltre 100.000 persone muoiono a causa dell’alcol. Esso, inoltre, risulta più tossico di qualsiasi altra sostanza per un feto che si sta formando (pare che i “crack-babies”, neonati partoriti da madri cocainomani, soffrano davvero di sindrome alcolica fetale). Nessuna di queste accuse può essere mossa contro la marijuana. Come medicinale, essa è praticamente unica, in quanto ha molte applicazioni mediche e non se ne conosce un dosaggio letale. Mentre le intolleranze a farmaci come l’aspirina e l’ibuprofene sono presumibilmente responsabili di circa 7.600 morti (e 76.000 ricoveri) all’anno soltanto negli USA, la marijuana non uccide nessuno. Il suo ruolo di “gateway drug” (droga di passaggio) oggi sembra meno probabile che mai (e non è mai stata un’idea plausibile). In realtà, quasi tutto quello che fanno gli esseri umani – guidare automobili, far volare gli aerei e colpire palline da golf – è più pericoloso che fumare marijuana a casa propria. Chiunque tentasse seriamente di sostenere che la marijuana va proibita poiché costituisce un rischio per gli esseri umani scoprirebbe che le forze del cervello umano sono semplicemente insufficienti per un compito del genere.
Eppure, siamo così lontani dal piacevole locus amoenus della ragione ora che le persone vengono condannate a morte senza avere la possibilità di ottenere la libertà condizionata per avere coltivato, venduto, posseduto o comprato quella che, in realtà, è una pianta presente in natura. Pazienti malati di cancro e paraplegici sono stati condannati a decenni di prigione per il possesso di marijuana. I proprietari di negozi di giardinaggio hanno ricevuto condanne simili perché alcuni dei loro clienti sono stati presi a coltivare marijuana. Come si spiega questo spreco sconvolgente di vite umane e di risorse materiali? L’unica spiegazione è che il dibattito su questo argomento non è mai stato incanalato nei binari della razionalità. Si può tranquillamente dire che, se fosse inventato un farmaco che non comportasse alcun rischio fisico o dipendenza per coloro che lo usano ma producesse un sentimento passeggero di gioia spirituale in tutti coloro che provano ad assumerlo, ai sensi delle leggi attuali quel farmaco sarebbe illegale e i suoi consumatori verrebbero puniti senza pietà. Soltanto il reato biblico dell’idolatria sembrerebbe giustificare questo impulso punitivo. Visto che siamo persone di fede, e ci è stato insegnato che dobbiamo preoccuparci dei peccati commessi dal nostro prossimo, siamo diventati intolleranti nei confronti dell’irrazionalità manifestata dal potere dello Stato. L’aver vietato l’uso di certe sostanze ha portato alla reclusione (per interi decenni, ma anche per tutta la vita) di migliaia di uomini e donne, altrimenti produttivi e rispettosi della legge. Come se non bastasse, a tale orrore si aggiungano le azioni scellerate dei criminali violenti – gli assassini, gli stupratori e i pedofili – che ottengono regolarmente la libertà condizionata. [2] In questo caso pare che abbiamo oltrepassato la banalità del male, per tuffarci nelle profondità dell’assurdo. [3] Su questo fronte le conseguenze della nostra irrazionalità sono talmente notevoli da meritare un esame più attento. Ogni anno, negli USA vengono arrestati oltre un milione e mezzo di uomini e donne a causa delle nostre leggi sulla droga. In questo momento, circa 400.000 persone languono nelle prigioni americane per reati non violenti legati alla droga e un altro milione di individui è in regime di semilibertà. [4]

Per questi reati negli Stati Uniti sono recluse più persone di quelle che finiscono in prigione, per ogni sorta di crimine, in tutta l’Europa occidentale (che complessivamente ha una popolazione più elevata di quella statunitense). Questo ci costa, soltanto a livello federale, quasi 20 miliardi di dollari l’anno. Il costo complessivo delle nostre leggi sulla droga – tenendo conto della spesa per le amministrazioni statali e locali e i mancati introiti fiscali dovuti all’assenza di una regolamentazione delle vendite di droga – potrebbe facilmente superare i 100 miliardi di dollari all’anno. La nostra guerra contro la droga consuma all’incirca il 50% del tempo destinato ai processi in tribunale, nonché tutte le energie di oltre 400.000 ufficiali di polizia. Si tratta di risorse che, diversamente, potrebbero essere usate per combattere il crimine violento e il terrorismo. Dal punto di vista storico, c’erano tutte le ragioni per aspettarsi il fallimento di una simile politica proibizionista. Per esempio, è risaputo che l’esperimento del proibizionismo contro l’alcol in America ottenne l’unico risultato di far precipitare la situazione in una terribile commedia che registrò una diffusione ancor più ampia dell’alcolismo, del crimine organizzato e della corruzione della polizia. Per lo più si dimentica, però, che il proibizionismo rappresentava una pratica esplicitamente religiosa, essendo il prodotto congiunto dell’associazione Woman’s Christian Temperance Union e delle devote pressioni di alcune associazioni missionarie protestanti. Il problema del proibizionismo di qualsiasi bene sono i soldi. Secondo l’ONU, il commercio di droga produce un giro d’affari di 400 miliardi di dollari all’anno, cioè una cifra superiore al budget annuale del Dipartimento della Difesa. Se questo dato è esatto, il commercio di droghe illegali costituisce l’8% di tutti gli scambi commerciali internazionali (mentre il settore tessile rappresenta il 7,5% e i veicoli a motore appena il 5,3%). Eppure, è il proibizionismo stesso a rendere così straordinariamente redditizie la produzione e la vendita di droga. Coloro che si guadagnano da vivere in questo modo ottengono guadagni dell’ordine del 5.000-20.000% (della cifra investita), e senza pagare le tasse. Qualsiasi indicatore rilevante per il commercio della droga – come il tasso di consumo e di interdizioni, le stime sulla produzione, la purezza della droga venduta per strada, ecc. – rivela che il governo non potrà fare nulla per fermarlo finché ci saranno questi profitti (che indubbiamente, in ogni caso, sono frutto anche della corruzione nell’applicazione della legge). Il reato commesso dal tossicodipendente, cioè trovare le cifre stratosferiche necessarie per condurre un simile stile di vita, e quello commesso dallo spacciatore, cioè proteggere il suo territorio e i suoi beni, sono entrambi risultati del proibizionismo. [5]
Costituisce un ultimo paradosso, talmente perfetto da sembrare opera di satana in persona, il fatto che il mercato che abbiamo creato con le nostre leggi sulla droga è diventato un’imponente fonte di entrate per organizzazioni terroristiche come Al Qaeda, la jihad islamica, gli hezbollah, Sendero Luminoso e altre. Pur ammettendo che impedire il consumo di droga sia un obbiettivo sociale giustificabile, come si presentano i costi finanziari della guerra contro la droga alla luce delle altre minacce che dobbiamo affrontare? Considerate che sarebbe bastata una spesa di 2 miliardi di dollari per difendere i nostri porti marittimi commerciali dal contrabbando di armi nucleari. Attualmente a questo scopo abbiamo stanziato soltanto 93 milioni di dollari. Come ci sembrerà l’aver proibito il consumo di marijuana (che ogni anno ci costa 4 miliardi di dollari) se sul porto di Los Angeles sorgerà un sole post-atomico? Oppure considerate che il governo americano può permettersi di spendere soltanto 2,3 miliardi di dollari all’anno per la ricostruzione in Afghanistan. I talebani e Al Qaeda hanno fatto nuovamente la loro comparsa. I signori della guerra controllano le campagne oltre i confini della città di Kabul. Cos’è più importante per noi: restituire questa parte del mondo all’esercito della civiltà o impedire ai malati di cancro ricoverati a Berkeley di trovare sollievo dalla nausea con la marijuana? Il modo in cui oggi usiamo i fondi governativi suggerisce la presenza di una bizzarra anomalia (per non dire squilibrio) nelle priorità della nostra nazione. Una distribuzione delle risorse tanto stravagante certamente farà sì che per anni l’Afghanistan continui a essere un cumulo di rovine e non concederà alcuna possibilità di scelta ai contadini afghani, che si troveranno costretti a coltivare l’oppio. Fortunatamente per loro, le nostre leggi sulla droga rendono ancora molto redditizia questa attività. [6]
Chiunque creda che Dio ci stia guardando dall’alto dei cieli, considererà del tutto ragionevole il fatto di punire uomini e donne pacifici per i modi in cui trovano piacere in privato. Ora siamo nel XXI secolo. Forse dovremmo trovare motivazioni migliori per togliere al nostro prossimo la libertà sotto la minaccia delle armi. Considerata l’entità dei problemi reali che dobbiamo affrontare – terrorismo, proliferazione nucleare, diffusione delle malattie infettive, infrastrutture fatiscenti, mancanza di finanziamenti adeguati per l’istruzione o l’assistenza sanitaria ecc. – la nostra guerra contro il peccato è talmente offensiva e sconsiderata da sottrarsi a qualunque commento razionale. Come siamo potuti divenire così ciechi di fronte ai nostri interessi più profondi? E come siamo riusciti ad attuare queste politiche senza discuterne, in pratica, la sostanza?
]
Certo, Sam Harris scriveva queste cose nel lontano 2004. Alcune cose sono cambiate, da allora, ma nonostante spiragli di luce e cambiamento questo discorso rimane ancora di triste attualità.
Note
[1] Considerare il problema della droga dal punto di vista sanitario può risultare istruttivo. Le nostre leggi che impediscono di fornire ai drogati aghi sterili hanno causato un aumento della diffusione dell’AIDS, dell’epatite C e di altre malattie che si trasmettono attraverso il sangue infetto. Dal momento che i consumatori di droghe illegali non possono mai essere sicuri della purezza e della composizione delle sostanze assunte, il tasso di avvelenamento e di overdose dovuti al consumo di droga resta alto (come accadeva con l’alcol durante il proibizionismo). Inoltre, la penalizzazione della droga ha fatto sì che i minori riescano a procurarsela più facilmente, in quanto il mercato che li rifornisce è del tutto illegale. Le leggi che limitano l’uso degli oppiacei come lenitivi del dolore in pratica non fanno che sottoporre a sofferenze inutili i malati terminali durante i loro ultimi mesi di vita.
[2] Circa il 51% di tutti gli aggressori violenti viene scarcerato dopo aver scontato solo due anni della pena o ancor meno, il 76% dopo aver scontato al massimo quattro anni. In tutti gli USA la condanna media per reati di droga è di 6,25 anni.
[3] A questo riguardo, assistiamo a situazioni ancora più inverosimili. Eppure, questo ammasso di cose imponderabili si spinge ancor oltre. In molti Stati, una persona che è stata semplicemente accusata di reati di droga può subire la confisca dei beni di sua proprietà, mentre coloro che la denunciano vengono ricompensati con una cifra che può arrivare al 25% del valore di quei beni. Il resto del bottino finisce ai dipartimenti di polizia, che ora si affidano alle confische per far quadrare il bilancio. Durante l’Inquisizione fu adottato un analogo sistema che, incentivando le denunce, fece dilagare la corruzione (ammesso che si possa definire “corrotto” il sistema stesso). Come un eretico, una persona accusata di reati di droga può solo sperare di riuscire a barattare informazioni con una riduzione di pena; qualora non possa, o non voglia, coinvolgere altri, va inevitabilmente incontro a pene di incredibile severità. In effetti le informazioni sono diventate talmente preziose che intorno a esse è sorto un apposito mercato nero. Gli imputati che non ne hanno possono comprarle da informatori professionisti, e non certo a buon mercato. Il risultato finale di tutto ciò è che i dipartimenti di polizia hanno imparato a prendere di mira le proprietà degli accusati anziché i loro reati. La proprietà può essere confiscata anche se, in ultima istanza, l’imputato viene riconosciuto innocente. Un sondaggio nazionale ha rivelato che l’80% delle confische si verifica in assenza di ogni tipo di procedimento giudiziario penale. Ai sensi di queste leggi illuminate, coppie di ottantenni hanno perso definitivamente la casa perché un nipote è stato trovato in possesso di marijuana. La guerra contro la droga, chiaramente, ha fatto molto per erodere i nostri diritti civili. Nel tentativo di facilitare la vittoria in questa guerra invincibile sono stati rivisti, in particolare, gli standard per la perquisizione e la confisca, il rilascio prima del processo e la discrezione giudiziaria (…). Dal momento che i reati di droga sono di competenza delle giurisdizioni locali, statali e federali, gli imputati possono essere processati varie volte per lo stesso reato: alcuni sono stati riconosciuti innocenti in una sede e colpevoli in un’altra, per poi essere condannati a morte in una fase successiva del procedimento giudiziario. In più di un’occasione, i membri del Congresso hanno introdotto legislazioni che tentano di punire con la pena capitale chiunque sia trovato a spacciare droga. Prevedibilmente, i nostri tentativi di sradicare la produzione e distribuzione di droga in altre nazioni sono stati persino più deleteri per le libertà altrui. In America Latina siamo diventati infaticabili benefattori di coloro che violano i diritti umani. In termini ambientali, la guerra contro la droga non ha ottenuto risultati migliori. Gli erbicidi sparsi dall’alto hanno solo contribuito ad accelerare la distruzione della foresta pluviale, così come la contaminazione delle riserve idriche e dei raccolti essenziali alla sopravvivenza e l’avvelenamento delle stesse popolazioni locali. Recentemente il governo americano ha cercato consensi al suo progetto che prevede l’utilizzazione di un “fungo killer”, finalizzato ad attaccare le colture di marijuana negli USA e quelle di oppio e di coca all’estero. Per il momento, alcune preoccupazioni piuttosto ovvie relative all’ambiente ne hanno impedito l’utilizzo.
[4] La guerra contro la droga è anche diventata un potente generatore di disuguaglianza razziale, in quanto i neri, che costituiscono solo il 12% della popolazione americana e il 13% dei consumatori di droga della nazione, rappresentano ben il 38% degli arrestati e il 59% di coloro che vengono condannati per reati di droga. Le nostre leggi sulla droga hanno contribuito a creare delle situazioni di grave disagio sociale: nella comunità nera, infatti, moltissimi bambini crescono senza un padre e ciò – oltre alla criminalità derivante dal commercio di droga – ha devastato ulteriormente le zone più degradate.
[5] Quando è stata l’ultima volta che qualcuno è stato ucciso per una questione di tabacco o di alcol finita male? [Harris intende commercio di tabacco o commercio di alcol, ndt] Possiamo essere certi che la situazione si normalizzerebbe anche in merito alla droga, se il governo rivedesse e modificasse la legislazione attualmente in vigore. Agli inizi della moderna “guerra contro la droga” l’economista Milton Friedman osservò che “la legalizzazione della droga ridurrebbe il numero di reati e al tempo stesso farebbe migliorare la qualità dei provvedimenti presi per applicare la legge”. Poi invitava il lettore a provare a “concepire un’altra misura qualsiasi che possa fare così tanto per promuovere la legge e l’ordine”. Ciò che era vero allora resta vero anche oggi, dopo trent’anni di malgoverno. La criminalità associata al commercio di droga è la conseguenza ineludibile delle nostre stesse leggi sulla droga.
[6] Tutto ciò persiste, anche se la vendita legalizzata e regolamentata della droga avrebbe notevoli benefici: eviterebbe la diffusione tra i minori (quando è stata l’ultima volta che qualcuno è stato trovato a vendere vodka nel cortile di una scuola?), sradicherebbe il crimine organizzato, ridurrebbe di decine di miliardi di dollari la spesa annuale destinata a far applicare la legge, raccoglierebbe altri miliardi attraverso nuove tasse imposte sulla sua vendita e permetterebbe a centinaia di migliaia di ufficiali di polizia di dedicarsi esclusivamente alla lotta contro il crimine organizzato e il terrorismo. A controbilanciare questi vantaggi c’è la paura che la legalizzazione della droga possa portare a un’epidemia di abusi nel consumo e nella dipendenza. Il buonsenso (oltre ai paragoni tra gli Stati Uniti e nazioni come l’Olanda) rivela che tale paura è priva di fondamento. Come possono testimoniare oltre 100 dei circa 108 milioni di americani che hanno fatto uso di droghe illegali, la dipendenza è un fenomeno distinto dal semplice uso e i consumatori, per evitare di svilupparla, non devono fare altro che essere ben informati. Naturalmente i tossicodipendenti devono essere curati, ma attualmente non ci sono abbastanza fondi da destinare a questi trattamenti. Ciò non significa negare che una piccola percentuale delle persone che fanno uso di droga non distrugga la propria vita a causa di tali sostanze. Generalmente pensiamo che questo problema sia caratterizzato da due livelli di gravità: “l’abuso” e “la dipendenza”. Resta pur vero che la maggioranza delle persone che fanno uso di droga non abusa di esse, e molte droghe illegali non generano immediatamente dipendenza neppure quando finiscono in mano di chi ne abusa (la marijuana, l’LSD, la psilocibina, la mescalina, ecc.). Dire che una droga genera dipendenza equivale a dire che i consumatori abituali sviluppano una tolleranza a essa (e quindi hanno bisogno di dosi sempre maggiori per ottenere lo stesso effetto) e mostrano sintomi da astinenza quando smettono di assumerla. Non è difficile capire perché persone animate da buone intenzioni si preoccupino del fatto che altri possano diventare inavvertitamente schiavi di questi meccanismi biochimici. L’oppio e i suoi derivati (come l’eroina e la morfina) sono i classici esempi di droghe di questo tipo, ma anche la nicotina e l’alcol possono rientrare nella stessa categoria, qualora si ecceda nel loro uso. In base alle nostre leggi, tuttavia, tutti i consumatori di droghe illegali – che siano o meno disfunzionali, che siano o meno dipendenti – sono considerati criminali e vengono arrestati, imprigionati, sottoposti alla confisca della proprietà e ad altre pene da parte dello Stato. La nostra politica sulla droga ha creato delle distinzioni arbitrarie e illusorie tra le sostanze biologicamente attive, oscurando invece quelle reali. Nessuno mette in dubbio che l’uso di certe droghe possa rovinare la vita di qualcuno. Ma lo stesso si può dire praticamente di ogni “prodotto” a nostra disposizione. Le persone rovinano la propria vita semplicemente mangiando troppo. Nel 2003 il centro per il controllo delle malattie ha dichiarato che l’obesità è il problema principale della sanità pubblica degli USA, eppure pochi di noi ritengono che debbano essere stilate nuove leggi penali per regolare il consumo di cheeseburger [io sì, ndt]. Le droghe rappresentano un problema, ma è pur sempre un problema che si può risolvere con una migliore informazione e un miglior servizio sanitario, e non certo con il carcere. Osservate le persone che nella vita pubblica non sono in grado di discutere razionalmente sull’argomento (a partire da John Ashcroft) e scoprirete che la loro visione del mondo è fortemente condizionata dalla fede religiosa.
Riferimento: HARRIS, Sam, La Fine della Fede – Religione, Terrore e il futuro della Ragione, San Lazzaro di Savena (BO), Nuovi Mondi Media, 2006, pp. 137-141, 226-231.
L’ha ribloggato su Igore ha commentato:
Ribloggo l’interessante e approfondito contributo di un amico. Enjoy
"Mi piace""Mi piace"