Tyke e Big Mary – per non accettare più la barbarie di circhi e zoo

Assieme ai delfini, gli scimpanzé, i polpi, i corvi e le gazze, e alcuni altri animali quali i maiali, i topi e gli scoiattoli, gli elefanti sono spesso considerati tra gli animali più intelligenti del pianeta. Si tratta di mammiferi dalle grandi dimensioni, capaci di provare affetto ed empatia e di manifestarli; sono in grado di collaborare con i loro simili e di riconoscersi allo specchio. Recentemente è stato anche osservato come gli elefanti siano consapevoli del proprio corpo, quindi in grado di percepire i loro corpi nello spazio circostante. Ne esistono tre specie sul pianeta: l’elefante asiatico (Elephas maximus), l’elefante africano (Loxodonta africana) e l’elefante africano delle foreste, ovvero il Loxodonta cyclotis. Sono animali che vivono in branchi, normalmente composti da una ventina di individui, ma che possono arrivare anche a numeri maggiori, e che in natura vivono fino a 60-80 anni. Hanno bisogno di un’area molto vasta, questo perché si spostano molto – possono camminare fino a 80 chilometri in un giorno – e perché mangiano enormi quantità, che possono variare giornalmente, per singolo elefante, tra i 150 e i 300 kg di vegetali.

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Elefanti liberi in natura, nel Ruaha National Park, nella regione di Iringa, in Tanzania

L’elefante è un animale estremamente sensibile, e nelle sue aree naturali subisce da tempo (e a causa dell’uomo) la riduzione del suo habitat e la deforestazione, il bracconaggio per l’avorio o per la caccia ai trofei, i cambiamenti climatici, eccetera, proprio come tutte le altre specie animali e vegetali presenti in natura. Oggi ho deciso di parlare di elefanti per denunciare, in senso più largo, l’ingiustificabile e brutale schiavitù a cui gli animali sono sottoposti nei circhi e negli zoo. Proprio per questo motivo parlerò di due storie, quella di Tyke e quella di Big Mary, poco conosciute al grande pubblico e alle nostre latitudini. Due storie che possono facilmente cadere nel dimenticatoio della violenza e dello sfruttamento degli animali non umani da parte dell’uomo, se non si continuerà a ricordarne le due protagoniste. La premessa che faccio, però, è questa: non sono solo gli elefanti a soffrire negli zoo e nei circhi. Non sto denunciando la violenza perpetrata negli zoo e nei circhi ai danni degli elefanti, ma ANCHE quella ai danni degli elefanti: sto denunciando la violenza nei confronti degli animali tenuti rinchiusi in prigioni che comunemente vengono chiamati zoo, circhi, acquari, delfinari, eccetera. Possano Tyke e Big Mary non essere morte invano. Possano essere e restare oggi un simbolo per la liberazione di tutti gli esseri senzienti che stanno dietro le sbarre senza colpe.

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Elefanti nel Ruaha National Park, Tanzania

Correva l’anno 1994, era il 20 agosto.

23 anni fa, numerose telecamere e macchine fotografiche riprendevano le 86 fucilate che uccisero Tyke, elefante africano del Circus International di Honolulu, Hawaii. Tyke era una femmina, pesava oltre tre tonnellate e mezzo ed aveva 20 anni. In natura avrebbe potuto vivere fino ai 60-70 anni.

Prigionia. Tyke, come numerosi conspecifici e numerosi esemplari di altre specie, è stata costretta a una vita di stenti e di sofferenze. Non bisogna essere esperti in biologia ed etologia per accorgersi che, per un animale come Tyke, vivere su un’isola in mezzo al Pacifico, in catene, fra frustate, punture, bastonate, uncinate e arpionate, non è una vita degna e conforme alla sua specie. Se Tyke ne avesse avuto la possibilità sarebbe vissuta in Africa, con gli altri elefanti, sfruttando l’intero suo habitat naturale, centinaia di milioni di chilometri quadrati, camminando e correndo per molti chilometri ogni giorno. Poco importa il rischio di essere uccisi dai bracconieri d’avorio. Si chiamano bracconieri perché infrangono la legge, il bracconaggio è illegale. Tyke ha sperimentato qualcosa di diverso. La prigionia a cui è stata costretta era legale. È legale.

Intelligenza. Tyke era perfettamente cosciente di quello che stava passando. Gli elefanti sono animali estremamente intelligenti, spesso considerati fra gli animali più intelligenti e razionali del regno animale. La prigionia di Tyke era ancora più devastante considerato il suo alto livello di percezione, coscienza e autocoscienza.

Condanna. Le sbarre e le catene, costruite da uomini, che hanno tenuto in prigione Tyke per tutta la sua vita non hanno nessuna spiegazione razionale, logica o eticamente giustificabile. Solamente spiegazioni futili e stupide. Tyke non ha commesso nessun reato per essere costretta a subire una condanna a vita in prigione. Apparteneva ad un’altra specie, ed è stata questa la sua sfortuna. Incrociare disgraziatamente sul suo destino chi la riteneva colpevole di appartenere ad un’altra specie. Chi la riteneva troppo bella per sprecare una così ghiotta occasione per fare soldi. Non aveva commesso nessun crimine e nessun reato, non era colpevole di nulla, se non l’essere stata se stessa, fino alla fine.

Complicità. La condanna di Tyke è stata resa possibile, all’infuori del ruolo giocato dai suoi aguzzini, dalla complicità di chi acquista un biglietto per la sua prigionia. Il prezzo della loro libertà è il prezzo di un biglietto, sporco di sangue. Con quel biglietto Tyke non ci ha rimesso solo la libertà, Tyke ci ha rimesso la vita. Per le persone è solo un pezzo di carta, per l’acquario, per lo zoo, per il delfinario, per il circo. Per loro è molto di più: l’intera esistenza.

Umanizzazione. I difensori di Tyke, come il sottoscritto – difendo Tyke, e con lei tutti gli animali che hanno attraversato, tutti quelli che attraversano e tutti quelli che attraverseranno quello che ha attraversato lei – vengono spesso tacciati di “umanizzazione”. In altre parole difendere Tyke, secondo gli argomenti di chi ci critica o attacca, dei nostri detrattori, significa umanizzarla, perché di una specie diversa e quindi, come tale, deve sottostare alla nostra. Non è così. Se questo è l’ordine naturale delle cose da seguire, sono fiero di andare contro l’ordine naturale delle cose, contro la mia specie, di non accettare la mia natura. Tyke non sarà mai umanizzata perché io la difendo. Tyke era umanizzata e ridicolizzata quando veniva costretta davanti a folle urlanti a sedersi su uno sgabello gigante di metallo, quando era costretta a vestire un tutù per fare ridere le persone, quando gli altri schiavi come lei, venivano messi su una bicicletta a pedalare o dovevano portare in testa uno stupido cappello. Un tempo nei circhi e negli zoo venivano esposti contro la loro volontà, proprio come Tyke, le donne barbute, i nani, le persone affette da filariasi linfatica, gli storpi, gli handicappati. Quello che ha passato Tyke e quello che passano e passeranno gli animali in prigionia come lei, esposti per il divertimento umano, non è altro che un processo già visto sugli esseri umani decenni e secoli fa. Le cose cambieranno in futuro come sono cambiate in passato. Nessuno può fermare questo processo di sensibilizzazione. Tyke avrebbe dovuto ottenere in cambio la dignità propria della sua specie; ma non le è stato concesso nulla del genere. E questo ha condotto alla sua fine.

R/esistenza. Tyke ha reagito come reagirebbe chiunque – animale umano o non – nelle stesse sue condizioni di prigionia senza condanna, di tortura umanizzante e degradante, di privazione della libertà accomunata da intelligenza e coscienza. Mettendo in atto la R/esistenza. Ha deciso di mettere in atto la resistenza per il suo diritto all’esistenza.

Il 21 aprile del 1993 Tyke scappò per la prima volta. Il giorno seguente attaccò un ammaestratore di tigri. Solo quattro mesi dopo, il 23 luglio del 1993, Tyke cercò di nuovo la fuga. Il 20 agosto del 1994 Tyke tentò per l’ultima volta la fuga. Durante uno spettacolo del Circus International ad Honolulu, nelle Hawaii, Tyke attaccò e calpestò Dallas Beckwith, collaboratore aguzzino del suo ammaestratore, Allen Campbell, che tentando di difendere Beckwith venne attaccato ed ucciso da Tyke. Tyke scappò dall’arena e cercò la fuga per le strade di Honolulu. Attaccò Steve Hirano, pubblicista che cercò di fermarla quando Tyke stava cercando di lasciare il parcheggio. Dopo circa mezz’ora e 86 proiettili, la fuga e la resistenza di Tyke si conclusero su una strada di Honolulu, contro una macchina. Tyke morì per le ferite riportate. La sua fuga era durata qualche decina di minuti. La prigionia a cui fu costretta, molto di più.

Tyke è oggi un emblema della barbarie dei circhi e un simbolo dei movimenti di liberazione animale e per i diritti degli animali. Nonostante non se ne parli abbastanza, non è stata dimenticata. La sua battaglia è quella di molti altri animali, che ancora oggi stanno passando quello che ha passato lei.

La sua battaglia è la mia. La nostra.

Tyke non ha smesso di lottare e non si è piegata fino all’ultimo contro i suoi aguzzini. L’unica cosa da fare è fare ciò che ha fatto lei. Non piegare o voltare la testa. Non cederemo, per lei, per loro. Non c’è modo migliore per ringraziarla, onorarla, rispettarla.

Tyke (1974-20.08.1994)

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Tyke nel momento della sua uccisione, per le strade di Honolulu, il 20 agosto del 1994. For illustration only. Source: 19-years-since-tyke-the-circus-elephant-was-brutally-killed

L’altra storia è invece molto più vecchia, ma non meno importante. E, triste doverlo scrivere, non meno aberrante. È la storia di Big Mary.

Era il 13 settembre del 1916, poco più di cent’anni fa, quando Big Mary venne impiccata per la seconda volta e uccisa per la seconda volta.

La prima morte, Big Mary la scontò vivendo.

Vivendo quell’inferno che è il circo con animali, vivendo quel che accade alle creature che nascono con la “colpa” di appartenere ad un’altra specie, vivendo quell’inferno che ti ritrovi a vivere quando ti valutano in termini di profitto, che tu sia un animale umano o non-umano.

Elefantessa indiana del circo noto come Sparks World Famous Show, Big Mary il 12 settembre uccise tale Red Eldridge. L’operaio del circo, in groppa a Big Mary, l’aveva pungolata dietro la testa con un gancio poiché l’aveva reputata colpevole di essersi fermata a raccogliere un cocomero con la proboscide, durante la marcia pubblicitaria. Big Mary aveva afferrato Eldridge e lo aveva lanciato contro uno stand di bevande, per poi finirlo calpestandogli la testa. Per ripulire l’immagine del circo, il proprietario decise di giustiziare pubblicamente Mary.

Ecco che si giunge alla seconda morte di Mary. Quella fisica, quella che porta a compimento la morte simbolica vissuta nella prigionia da un animale innocente.

Dopo avere scartato l’ipotesi dell’avvelenamento e quella dell’elettrocuzione (già usata per uccidere un altro elefante, Topsy, 13 anni prima) si decise per l’impiccagione. Il primo tentativo fallì poiché la catena si spezzò a causa del peso dell’animale, di cinque tonnellate. Nella caduta Mary si ferì gravemente all’anca, soffrendo un’esecuzione ancora più dolorosa del previsto. Il secondo tentativo uccise Mary, che venne sepolta di fianco ai binari della ferrovia sulla quale era avvenuta l’esecuzione.

Quella che 101 anni fa fu una decisione presa per “ripulire” l’immagine del circo, 101 anni dopo, oggi, io la reputo un’ulteriore, ignobile, infame e ingiustificabile prova dell’ignobile, infame e ingiustificabile industria dei circhi con animali non-umani.

Big Mary (1894-13.09.1916)

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L’esecuzione di Big Mary il 13 settembre 1916. For illustration only. Source: stranger-fiction-hanging-murderous-mary

Mi fa ancora più male pensare che Big Mary è passata alla storia, ed è ancora talvolta ricordata come Murderous Mary, ovvero Mary assassina. In questo paradossale esercizio, noi esseri umani siamo degli autentici fenomeni: sappiamo dipingerci come delle divinità in Terra, auto-identificandoci come Homo Sapiens sapiens e dipingendo spesso gli altri animali come delle bestie, sedicenti mostri capaci di brutalità: basti pensare a come viene definita l’orca (orca assassina, o killer whale, in inglese), al nome scientifico dell’orso grizzly (Ursus arctos horribilis) o alla pessima reputazione che hanno animali estremamente e socialmente complessi come i lupi e le iene.

Ma quello che subiscono gli animali negli zoo e nei circhi è un dominio ingiustificato e brutale, una forma di sfruttamento da parte dell’uomo, è infame mercificazione di chi merce non è. Il biglietto, le risate, la complicità, a loro costano la vita. Tutto ciò non dovrebbe avere spazio in nessuna società che si dica civile e civilizzata. La violenza, però, non è solo quella fisica fatta di pungoli e uncini, che viene inferta agli animali dai loro carcerieri: è anche psicologica. Ancora una volta, corre in mio aiuto Desmond Morris per chiarire meglio la questione:

“I movimenti stereotipati affiorano inoltre anche in condizioni di noia estrema. Questo si può riscontrare chiaramente sia negli animali dei giardini zoologici che nella nostra razza e talvolta assumono proporzioni spaventose. Gli animali in stato di cattività stringerebbero contatti sociali se ne avessero la possibilità, ma ne sono impediti fisicamente. La situazione è fondamentalmente la stessa nei casi di allontanamento sociale. L’ambiente ristretto dello zoo blocca i contatti sociali e mette gli animali in condizioni obbligate di allontanamento dalla società. Le sbarre della gabbia costituiscono un solido equivalente fisico delle barriere psicologiche che si parano davanti all’individuo socialmente introverso. Esse costituiscono un potente meccanismo anti-esplorativo, per cui l’animale dello zoo, non avendo niente da esplorare, comincia ad esprimere se stesso nel solo modo possibile e cioè sviluppando dei movimenti stereotipati. Noi tutti conosciamo bene il ripetuto andirivieni degli animali in gabbia, ma questa è solo una delle molte e strane manifestazioni che possono sorgere. Talvolta si ha una masturbazione stilizzata che non implica una manipolazione del pene. L’animale, di solito una scimmia, effettua semplicemente i movimenti masturbatori di andirivieni col braccio e con la mano, senza però toccare realmente il pene. Alcune scimmie femmine si succhiano ripetutamente i capezzoli. Gli animali giovani si succhiano le zampe. Gli scimpanzé talvolta si infilano dei fili di paglia nelle orecchie (fino ad allora sane). Gli elefanti scuotono la testa per ore ed ore. Alcuni animali si mordono ripetutamente oppure si strappano il pelo e si può avere un’automutilazione. Alcune di queste reazioni si manifestano in situazioni di stress, ma molte sono semplicemente reazioni alla noia. Quando nell’ambiente non si verifica alcun cambiamento, l’impulso esplorativo si arresta. Osservando semplicemente un animale in stato di isolamento mentre effettua uno di questi movimenti stereotipati, è impossibile sapere con sicurezza quale sia la causa di un simile comportamento. Può trattarsi di noia oppure di stress. Se si tratta di stress, questo può essere dovuto ad una situazione ambientale immediata, oppure può essere un fenomeno a lunga scadenza derivante da un anormale modo di allevamento. Qualche semplice esperimento ci può dare la risposta. Se ponendo degli oggetti estranei nella gabbia i movimenti stereotipati scompaiono e comincia l’esplorazione, è ovvio che questi erano provocati dalla noia. Se invece i movimenti stereotipati aumentano, vuol dire che erano determinati da uno stress. Se persistono dopo l’introduzione nella gabbia di altri membri della stessa specie, in modo da creare un normale ambiente sociale, ciò vuol dire che l’individuo dai movimenti stereotipati quasi certamente ha avuto un’infanzia anormalmente solitaria. Queste particolarità dello zoo si possono riscontrare nella nostra specie (forse perché noi abbiamo creato i nostri zoo tanto simili alle nostre città). Essi dovrebbero costituire per noi un insegnamento e ricordarci dell’enorme importanza di raggiungere un buon equilibrio tra le nostre tendenze neofobiche e quelle neofiliche. Se non riusciamo ad ottenere questo scopo non possiamo funzionare nel modo giusto. Il nostro sistema nervoso fa per noi quanto è possibile, ma i risultati saranno sempre un travisamento delle nostre reali capacità di comportamento”.

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Elefanti nel Ruaha National Park, in Tanzania. Così avrebbero vissuto le loro vite Big Mary e Tyke, se avessero potuto.

Non sapevo se pubblicare questo articolo il 20 agosto, nel 23o anniversario della morte di Tyke, o il 13 settembre, nel 101o della morte di Big Mary. Ho infine optato, simbolicamente, per una data neutra. Kasatka, un’orca femmina di cinque metri e mezzo e pesante oltre due tonnellate, è stata addormentata tre giorni fa perché soffriva di un’incurabile polmonite dal 2008. Non c’era momento migliore per raccontare le storie di Tyke e Big Mary, dopo quest’ennesima vittima non umana, morta in una prigione fruttasoldi. Servirebbero tonnellate di articoli di questo genere per raccontare le storie di tutti questi animali, e auspico che altri, come me, facciano divulgazione su questi temi. Mi auguro che questo articolo possa essere un modo per ricordare tutte le vittime degli zoo, dei circhi, dei delfinari e degli acquari, di qualunque specie, e quindi anche le vittime umane, di qualunque epoca.

Per Lolita, per Tilikum, per Tyke, per Topsy, per Big Mary, per Harambe, per Kasatka, per tutte le altre creature vittime e prigioniere del dio danaro, anche quelle umane che sono state in passato fenomeni da baraccone e rinchiuse negli zoo umani, non abbandoneremo mai questa lotta.

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